SOFTWARE GARRAFFA

 "SOFTWARE GARRAFFA"

Un testo di Alfonso Leto dedicato agli straordinari disegni di TOTI GARRAFFA
pubblicato per la triplice mostra "Nuovi disegni e installazioni", 2011 Fattoria dell'Arte (S.Stefano Quisquina), Fondazione Orestiadi (Gibellina), Atelier sul mare (Tusa).



SOFTWARE GARRAFFA: A MANO, TROPPO A MANO.  

«Sono un cittadino del sistema solare dotato di senso civico.

E insisto perché voi agiate.» *

 


200 disegni. Su fogli A4 (cm 21 x 29,7). Altissima risoluzione (750 dpi, 3000 x 2000 px). Cadauno in media 20HMB (Human Megabyte). 256milioni di colori convertiti in modalità monocromatica o bicromatica o al massimo tricromatica (immaginiamo come sarebbero in versione CMYK!).

Tutto fatto a mano (troppo a mano);  agile, come un “ricamatoreistruito” (come recita una canzone di Frank Zappa:- “Io sono l’autore di tutte le bordure e di tutti i drappeggi del damasco/Io sono Chrome Dinette, il similpelle.”)

Anche uno scanner navigato, pronto a tutto, sarebbe scosso da un orgasmo intenso e inaspettato passando il suo fascio di luce su uno solo di questi fogli.

Toti Garraffa ha (ri)messo a punto la versione aggiornata del suo magico, inimitabile psicopencilsoftware: evoluzione ultrapostmoderna dei disegni fantastico-psichedelici che già 30 anni fa ci avevano affascinati in quella sorta di colonia Extramondo qual’era quella dei giovani artisti palermitani, nel paesaggio urbano già allora dominato dalla Guttuso connection (e oggi dalla Guttuso re-connection).

C’erano anche allora i giovani artisti –ricordate?-. Solo che allora  erano una scoperta, oggi –quasi sempre- un’invenzione. Dico nella dimensione generale, si capisce, non solo quì.

«Come un osservatore di un altro pianeta, egli è una specie di sociologo da strada in mezzo a noi; io lo approvo. E mi domando se fra altri vent’anni le sue opinioni non sembreranno ancora più giuste.»

La differenza tra quei leggendari disegni e questi altri, pronti anch’essi a raggiungere le alte quote dei grandi disegnatori del fantastico (Fuchs, Clerici, Okamura, Carey, Abrams, Giuliano, Albright, ...) -noi sappiamo che è così-, non è nel mezzo arcaico e sofisticato come la faccia piatta di una grafite (minerale di origine metamorfica, di cui si son trovate tracce  perfino nei meteoriti) o la punta di una matita (che sempre di grafite è fatta). Questi strumenti rimangono tali e quali,  ma l’horror vacui nei disegni garraffeschi di oggi non è più praticato, perché il tempo ha agito aprendo squarci prospettici da cui filtrano luce, liquidi, stratigrafie di una mente umana (troppo umana), paradossi visivi («il macroscopio per gli astri e il microsopio per gli insetti» L. Bloy ), cazzeggi ‘patafisici nutritisi di flora, fauna, gemmologia e chimica degli elementi; lembi di memorie dell’amato Fragonard e delle belle arti perdute; schegge disneyane, improvvise ricostruzioni di spazi quotidiani e sentimentali immersi in un tempo liofilizzato; corpuscoli sospesi in uno spazio ibrido, dove la gravità di ogni cosa è livellata allo zero; infine: un automatismo esecutivo a rilascio controllato, come certi  farmaci di nuova generazione.

Non c’è più horror vacui, dicevo. Sarà l’avanzare dell’età o più sicuramente sarà che, nel frattempo, nelle arterie stesse dell’artista qualcuno ha inserito –veramente- sonde e fibre ottiche, per esplorare e sturare le cavità che il tempo aveva ostruito. Perché siamo fatti di tempo, si, ma anche di acqua e la nostra sensibilità lo avverte e ne risente.

 

«Io sono fatto di acqua. Non ve ne potete accorgere perché faccio in modo che non esca fuori. Anche i miei amici sono fatti di acqua. Tutti quanti. Il nostro problema è che non solo dobbiamo andarcene in giro senza essere assorbiti dal terreno ma, anche, che dobbiamo guadagnarci da vivere.

In realtà c’è un problema ancor più grosso. Dovunque andiamo non ci sentiamo a casa nostra. Perché? » 

    Oggi Garraffa ha 61 anni. Ha attraversato l’arte così, “come si attraversa una città” –diceva Picabia-. Tutto il suo lavoro, davvero lungo, sovrappopolato di multiformi creature, ha dato vita sempre ad una originalità che trova i suoi corrispettivi solo nelle forme più avanzate della creatività contemporanea non omologata.

Saltiamo, per brevità, i favolosi anni ‘Sessanta, gli anni del Garraffa politico, in cui è anche intensa l’attività artistica giovanile a Palermo (e Garraffa ne fu protagonista), ben documentata in un recente e attento studio di Marina Giordano. Cassiamoli con quella frase enunciata in un bel quadro di Tano Festa: “Al clima felice degli anni Sessanta”. E andiamo avanti.

 Pensiamo invece a quegli altri magnifici disegni degli anni ‘Settanta.

Un giorno di 30 anni fa, a Milano, il vecchio Cardazzo, storico gallerista de Il Naviglio, li vide e commentò a Garraffa: “Sono molto belli,  ma perchè non li fa più grandi?” – Perchè non si fa più piccolo lei?- fu la risposta. Nessuna presunzione: soltanto l’indicazione di un metodo di lettura. Qui forse, nella spazialità, sta la fondamentale differenza tra i disegni di allora e questi di oggi: quelli erano “specchi fiamminghi”(il microscopio per gli insetti) questi sono “finestre barocche” (il macroscopio per gli astri). Barocco portatile, s’intende,  da beauty-case per astronauti.

Tutta la mostra (l’interfaccia cartaceo, senza l’hardware) va in meno di una cartella 24 ore. Alla faccia dell’armamentario dei pittori che vivono la perenne (e costosa) tragedia dei trasporti.

   Pensiamo al suo mondo tattile e colorato, fatto di cerapongo © (gli anni ‘Ottanta),  al riuso degli oggetti di scarto attratti per forza d’inerzia sulla sua rotta di ricognizione e riconsegnati al mondo del linguaggio per un ultimo e disperato giro di vita (gli anni ‘Novanta), dove trovano posto anche la cultura paleontologica, astronomica, politica e il sense of humour dell’artista. Se pensiamo, ancora, alla sua meticolosa rappresentazione del globo terrestre (presentata in performance, a Gibellina nel 2002) attingendo ai principi di Arno Peters, per sfatare  il pregiudizio corrente che altera i rapporti tra masse geografiche e benessere; e soprattutto, se si conosce davvero il suo lavoro, non si può non ammettere che il suo diapason ha funzionato bene in questi ultimi quarant’anni, con le alte frequenze dell’arte del nostro Tempo. 

  Ho detto Tempo, non luogo.

 

«Palmer Eldritch era un professionista solitario, bizzarro e straordinario; aveva fatto miracoli nell’avvio della produzione di autofab sui pianeti colonizzati, ma come al solito si era spinto troppo in là, aveva esagerato con la pianificazione.»

 

Questi 200 disegni, così come li ho sommariamente descritti, sono il software (leggeri e ipnotici, come ali di farfalle) installato in un sistema di carpenteria metallica (l’hardware) che dipana una lunghissima rete rigida sagomata a leggío e, accogliendoli per noi in lunghissima sequenza, li sottrae al loro destino murale o, peggio, costretti ad un’apnea infinita sotto vetri o plex che li separerebbero fisicamente dal mondo, dal respiro, dallo sguardo nudo. E non è che lo sguardo abbia poi tante difese contro questi congegni visivi. Nudo è e nudo resta.

 Solo la polvere, alla lunga, potrebbe avere la meglio, invisibile e insidiosa clessidra, sull’infinita gamma di grigi-di polvere-di grafite di cui questi disegni son fatti.

Non dico che la polvere sia la benvenuta, ma dubito fortemente che Toti manderebbe qualcuno a spolverarli.

 

«Insomma, dovete considerare che siamo fatti di sola polvere. Non è granché per andare avanti, lo ammetto, e non dovremmo mai dimenticarcene. Quindi, da parte mia, sono convinto che, nonostante la pessima situazione attuale, possiamo farcela. Mi sono spiegato?»

 

Alfonso Leto

 

* le 5 citazioni incluse nel testo sono tutte tratte da romanzi di Philip K. Dick.




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