LA DOMENICA DELLO SGUARDO. A Thomas Kinkade

 Su KILLSERFCITY, il magazine dell'arte contemporanea, un omaggio all'artista americano dei paesaggi "commerciali", popolari o dello sguardo dei semplici. Il pittore più imitato e collezionato al mondo... forse anche il più amato e per altri versi il più snobato dallo sguardo colto e ossessionato dalla propria inflessibile visione.

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Quando è morto Thomas Kinkade, a 54 anni, il 7 Aprile 2012,  non se n’è accorto nessuno nel mondo cosidetto ufficiale dell’arte contemporanea.  Eppure Thomas,  oltre ad essere un nostro contemporaneo per privilegio (nostro) d’anagrafe,  è stato il pittore la cui opera è certamente la più diffusa al mondo, propagatasi con la rapidità e la capillartità di un virus planetario,  che predilige (senza danno) i sistemi immunitari meno schermati,  i semplici di ogni luogo, razza, età, ceto sociale, ricchezza economica, credo religioso, ossia quel “terzomondo” del gusto e della cultura che, persino osservato da Google Earth, evidenzia estese chiazze di kinkade distribuite in lungo e in largo nell’orografia multicolore dei continenti:  è la traccia di quella stessa umanità  che altrimenti non avrebbe mai conosciuto il tepore dell’arte e la generosità dell’artista, senza la luce che scalda il cuore domestico degli chalet di montagna o di pianura dai tetti innevati di Kinkade,  non avrebbe mai conosciuto  l’infanzia perpetua della sensibilità, la magia di cieli-bambagia su cui si stagliano, con  l’agilità di piccoli giochi wizard di colore, orizzonti montuosi a perdita d’occhio, dal prato al boschetto, dalla radura alle colline e su fino alle vette puntute, o il ruscelletto di montagna che scorre lieve sotto  il ponticello di legno che sembra costruito apposta per le fughe picaresche di Huckleberry Finn dalla noia quotidiana della scuola, oppure quei piccoli villaggi di una fiabesca California,

dov’è nato in Nostro, che forse non è mai esistita nella realtà.de è certamente anche l’artista non solo più collezionato ma anche il più riprodotto e imitato al mondo dai tanti militi ignoti dell’arte. Io stesso posseggo un quadruccio algido come un Fragonard dei poveri che porta la firma (tanto simile a quella di Kinkade) col solo nome: Thomas. E mi è sempre piaciuto pensare che il pezzo, acquistato da un corniciaio,  sia proprio suo, sfuggito chissà come dalle maglie nemmeno tanto strette del suo vastissimo mercato e della sua diffusione.  Ed è come se lo fosse, tanto è bello e solo.
 Il rapporto tra l’arte contemporanea e Thomas Kinkade   è lo stesso rapporto che esiste tra la l’haute cuisine e la mensa della Charitas: la prima dice di pensare e interpretare tutti i turbamenti del mondo (l’arte di impegno, per intendenderci) ma in realtà costa un occhio e, data in pasto ai finanzieri della speculazione artistica, tronfia com’è di se stessa e del suo ego spropositato, se ne fotte, da che mondo è mondo, della moltitudine di gente che non può permettersi d’avere in casa un quadro d’autore;  la seconda (in similitudine) sfama e ristora tutte quelle persone che, dati i costi accessibili, può regalare allo sguardo umano quell’istante perpetuo di incanto e di fiaba, campeggiare affabilmente sui divani in similpelle, o di damascato in fibra leacryl, sugli sparecchiatavola impiallacciati in finto tek;  ma anche, se consideriamo lo stuolo infinito di imitatori ai quali è dato senza il rancore del copyright la possibilità di guadagnarsi un pezzo di pane dipingendo in serie la loro versione del paradiso in terra, dove persino capita di vedere le arditezze, ignote agli intellettuali di vaglia, di un Cristo apocrifo, Buon Pastore,  che da uno chalet in una deliziosa boscaglia di pioppi, sta sulla soglia di casa, con camino fumante, ad aspettare il rientro delle sue pecorelle al tramonto.
  Alla mensa dell’arte, dunque, non solo metaforica potremmo dire: l’attività filantropica di Thomas Kinkade tocca cifre astronomiche, contrariamente alle cifre abbordabili dei suoi quadri. Nel 2002  è stato insignito del World Children’s Center Humanitarian Award per il suo contributo a migliorare il benessere dei bambini e delle loro famiglie attraverso il suo lavoro con Kolorful Kids and Art for Children.  Un artista filantropo è una vera rarità nel mondo delle star dell’arte di ogni tempo. Nel 2008 la sua vita è stata raccontata anche in un film “Thomas Kinkade’s Christmas Cottage” diretto da Michael Campus: una storia biografica che spiega bene l’origine di tutta la carica umanitaria dell’artista, anche se non basta a spiegarci il candido mistero del suo incorruttibile imaginario pittorico.

  Ma, non lasciamoci condizionare dal dato biografico o la visione si restringerà pateticamente, secondo quei canoni piccolo borghesi americani che del resto sono anche all’origine del celebrato Norman Rockwell, non a caso l’artista che Kinkade considerò sempre il suo Maestro. Non resta che sfogliare il campionario del paradiso in terra di Kinkade dal suo sito ufficiale  (http://www.thomaskinkade.com).  Regalatevi ogni tanto una vacanza della visione e, se siete animi sensibili, vi accorgerete che un pittore, come Kinkade, che per tutta la vita si produce in una sconfinata visione wizard del paesaggio, contenuta solo dai buoni uffici del corniciaio (suo fedele alleato), ci sta dicendo che, tra tutti “i gesti” che i linguaggi dell’arte contemporanea possono produrre, quello della pittura è e rimane un gesto eterno, che basta a se stesso e se ne può anche fottere dei salotti buoni dell’arte mondiale, della spocchia dei faccendieri d’arte, del primeggiare di mercanti e galleristi di prima classe, che pensano di avere tutte in mano sia la Storia che il denaro.  Kinkade forse (anzi certamente) non comparirà mai in un libro di Storia dell’arte semplicemente perché i critici e gli storici non hanno parole per raccontarlo. Tutti credono di saperci spiegare Andy Warhol (che certamente, onnivoro com’era,  non fu indifferente alla pittura Kinkade),  ma nessuno di loro sarebbe disposto a  spendere due parole per questo pittore ultrapop che veniva, fra l’altro, da un’alta formazione accademica (l’Università della California a Berkley e  l’Art Center College of Design di Pasadena).  Io, che non sono un critico ma un pittore,  ci ho provato.
Conlcusione? Oh, performer, videoartisti, installatori, prestigiatori dell’arte, esegeti del corpo e tecnonologi dell’immagine e del gusto, voi che vorreste fare intendere di aver scalato le vette dell’intelligenza e del significato, con i vostri giochi di prestigio, prestigio sociale, prestigio di mercato, con le vostre corsie preferenziali costruite apposta per voi  da questo nostro tempo insonne e affamato, potrete pure squartare animali e bere il loro sangue, potete stare fermi giorni interi sopra un piede o comporre le vostre liturgie contro il potere per gli adepti, potrete pure farvi piantare un chiodo in culo per cercare di ammazzare il nostro Tempo che non vi da pace. Fate come vi pare, ma ogni tanto non tralasciate di concedervi una domenica dello sguardo: guardate Kinkade, il senza Tempo, il senza gloria.
 Alfonso Leto.

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