Dedicato ad Andrea Di Marco 2012
Ad Andrea, al suo realismo della "Dopostoria"
ANDREA DI MARCO, Palermo 1970-2012 Prima ancora di conoscere Andrea, sette anni fa, avevo visto alcuni suoi quadri quì e la, prima sul web, poi dal vero, senza la presenza dell’autore o qualcuno che me ne parlasse, e mi avevano subito incuriosito e trasmesso il senso ineffabile dell’inattualità, quel ” sesto senso” che piace tanto a me e che vado inseguendo a modo mio da tempo: quel riscattarsi dall’ansia delle mode e assumere un tempo proprio, una propria clessidra emozionale ed estetica. Eppure avevo capito subito, non conoscendolo, che quella pittura, tuttavia, nonostante le apparenze di un gesto maturo e controllato, era di un ragazzo, perchè c’era il battito e l’adrenalina di un ragazzo in quei paesaggi, non di un vecchio maestro. Mi piacque subito, questo “macchiaiolo” talentuoso, questo “scapiglato” postromantico, intento a rovistare nel paesaggio della “Dopostoria”, come lo avrebbe chiamato Pasolini (anch'egli morto il 2 novembre!), in quella poesia che tanto si attaglia ad Andrea: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle Chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati (…)»; Andrea, che era riuscito ad isolare il germe metafisico della Palermo di scarto, che per l’effetto salvifico della mano prodigiosa del Pittore si trasforma in un gigantesco, articolato, mutevole paesaggio dall’alto tasso “glicemico”, in cui ogni colore ha la fragranza perpetua delle paste zuccherose di titanio, delle creme gialle di cadmio e le marmellate d’ocra, gli speziati bruni terrosi e gli azzoli improvvisi di un cobaltro impertinente che sa dove deve andare e sbattere in faccia al mondo la sua aristocrazia innata, dopo aver reso felice i pennelli e le spatole: fortunati strumenti “sessuali” di quella goduria visiva. Insomma: questa “pasticceria” bene organizzata secondo i canoni del realismo, Andrea, l’apparecchiava come uno chef della gioia su un mondo triste e silente, fatto di cose, case, nature ed oggetti, di un ideale limbo sospeso, che già in qualche modo erano stati devastati o abbandonati dall’uomo che, come possiamo vedere, non abita mai fisicamente questi frammenti di mondo governati dal greve tempo di un aldilà del quotidiano, perchè lo sguardo di Andrea quì è Padrone assoluto di ogni cattura e di ogni “prelievo” che, indisturbato, coglie l’anima struggente delle cose e ce la restituisce ancora con il cuore palpitante e con la sua voce che sembra dirci: “-amici, ho colto questo frammento di mondo terrestre per voi, che siete troppo intenti a guardare oltre senza oltrepassare il corpo stesso della visione. Ecco, lo faccio io per tutti voi, mi assumo io questa vertenza poetica,-”. Ho sempre avvertito così gli ultrasuoni della pittura di Andrea: sia come un “sacrificio” estetico personale, consumato quasi a dispetto dei riti contemporanei e temporanei delle mode, sia come una gioia per gli altri, una sorta di croce e delizia del Pittore: così come forse la pittura, quella autentica, è per tutti i pittori degni di questo nome. Nel 2006, ci conoscemmo e ci dichiarammo la stima artistica reciproca che avevamo “coltivato” a distanza: io vedendo i suoi lavori, lui i miei. Eravamo da Antonio Presti, ospiti nella mostra a Castelbuono “Meridiani/Paralleli” curata da Marina Giordano, insieme a tanti altri giovani artisti (io forse in quel contesto ero il più anziano), e l’amicizia e la simpatia umana scattarono immediatamente e proseguirono nel tempo, in tante altre bellissime occasioni che erano sempre preparate dall'arte e dalla nostra vita di artisti. Il suo senso dell’umorismo, poi, era fanciullesco, contagioso: era un piacere parlare con lui. Poi seguì anche la bella “gita” a Bruxelles, al Parlamento europeo, nella mostra curata da Emilia Valenza che riuniva un bel gruppo di artisti palermitani di più generazioni: e lì la nostra amicizia si alimentò ancor di più. Circa due anni fa gli comunicai una mia idea di riunire un gruppo di artisti bravi per misurarsi con la particolare categoria del kitsch e l’avremmo chiamata “Kitshc’è c’è”, titolo che lo aveva divertito parecchio, con la promessa che ci saremmo dedicati a questa idea. Recentemente, l’ultima volta che ho avuto il piacere d’incontrarlo, proprio il 13 ottobre, con quel suo dolce tono amichevole, si rammaricò, come se mi avesse fatto un torto, di non avere avuto il tempo di dedicarsi a quel progetto che tanto lo stuzzicava; e io, che pensavo l’avesse dimenticato, gli risposi, “Vabbè, c’è tempo, la faremo prima o poi”. Come immaginare che il tempo, il tempo dei viventi, non sarebbe stato dalla sua parte? Lui che ogni volta che ti abbracciava sembrava ti rendesse un po della sua vitalità esuberante. In quella stessa serata si parlò del suo affetto per il suo vecchio maestro Tino Signorini, che ancora andava a trovare ogni volta che poteva, e si rammaricò molto dello stato di dimenticanza in cui era piombata la sua opera. Gioì, invece, quando gli dissi, con Enzo Fiammetta, che la Fondazione Orestiadi aveva giusto acquisito un lavoro di Signorini e che lo aveva recentemente esposto, coinvolgendo il vecchio maestro che ne era stato felice. E infine, promise a me e a Franca che avrebbe finalmente trascorso un paio di giorni da noi, a S.Stefano, per un fine settimana paesano visitando anche nella tenuta di Lorenzo Reina con i suoi asini e il suo magico teatro di pietra. Era una promessa che rimarrà sospesa nel vuoto come un grande rimpianto, per me. Sentivo il suo affetto, la sua stima, che non mancavo di corrispondere perché quell'amicizia era innanzitutto autentica.
Una fuliggine sottilissima si era posata su di lui. La faccia della morte e quella di Andrea mi parevano “non sovrapponibili”. Eppure era così. E così e non possiamo farci nulla. Dunque, ciascuno si metta in salvo come meglio può.
Se è vero che in fondo nessuno muore mai veramente, quando i viventi ne accompagnano la memoria con il loro affetto e la loro gratitudine, penso proprio che Andrea sarà duro a morire veramente. Per il resto non sappiamo null'altro.
Come diceva quel Silesius in quella sua sorta di poema misterico della vita e della morte:
« Dov’è la mia dimora? Dove non stiamo noi.
Dov’è il mio fine ultimo, al quale devo muovere?
Laddove nulla c’è. E dove allora volgermi?
Oltrepassando Dio in un deserto andare.»
Dov’è il mio fine ultimo, al quale devo muovere?
Laddove nulla c’è. E dove allora volgermi?
Oltrepassando Dio in un deserto andare.»
Alfonso Leto, 10 Novembre 2012